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La storia di Nasim

Mi chiamo Nasim e vivo in questo sacchetto da novantanove anni.
Novantanove anni passati a guardare il mondo attraverso la plastica lucida e lievemente spiegazzata,
cercando di muovermi appena se non quando proprio non posso farne a meno.
Una gamba che formicola e sembra di non voler tornare a svolgere il suo compito di gamba mi obbliga a voltarmi dall’altra parte, il respiro si fa più intenso e allora tutto si appanna e non vedo più niente.
Spesso ho la fortuna di finire accanto a qualcosa, specie quando mi appoggiano su un tavolo.

Adesso, vicino a me c’è una candela accesa. La fiamma serpeggia come una lamed infuocata e la cera risplende sotto il suo tocco. Resto incantata a guardarla e ogni pensiero scompare.
La muove certamente qualcosa, sembra danzare ma vedo nei suoi spasmi un ritmo nascosto, non mi batte forse il cuore secondo un ordine preciso di pause e suoni?
Una volta ho cercato di uscire.
Ho scalato le pareti del sacchetto finchè non ho visto l’elastico verde, stretto come un laccio nero alla caviglia di un prigioniero.
Mi sono spinta proprio sotto, ho cercato di infilare una mano tra le pieghe della plastica ma non c’era neanche una fessurina, nulla che potesse permettermi di scavare o allargare o rompere o anche solo di aggrapparmi e sfiorare l’aria esterna.
Avrei potuto impiccarmi.
Ho preso la cinta del mio vestito bianco e l’ho girata più volte attorno alla mano, stretta come quell’elastico verde, l’ho immaginata sul mio collo.
Per un attimo appena un brivido mi ha sfiorato la schiena.
Impiccarmi era forse l’unico modo per uscire.
Ma non l’ho fatto.
La candela era accesa, come una donna sconosciuta che passa e sorride senza motivo.
Mi è sembrato un motivo valido per non ammazzarsi.
Una follia momentanea, o forse l’unico attimo di lucidità della mia vita.
Adesso sono seduta sul fondo, guardo l’elastico in alto, sbadiglio.
So che non uscirò mai, ma arriverà il momento in cui qualcuno mi sposterà ancora sul tavolo,
o magari su una mensola alta per evitare che mi prendano i bambini.
Quando prenderanno il sacchetto inizierò a dibattermi con tutte le forze, urlerò, piangerò, griderò.
Tutti i rumori possibili.
La persona alzerà il sacchetto all’altezza dei suoi occhi e lo avvicinerà al volto.
Proprio allora smetterò di gridare, schiaccerò le mie mani alla plastica per fargli vedere quanto sono piccole.
Guarderò con i miei occhietti quegli enormi occhi e chiederò di lasciarmi andare.
Ho paura di quelle mani che mi hanno protetta e che sole possono darmi la libertà, ma degli occhi no, si può sempre guardare dritto negli occhi, è l’unica violenza che conosco.
Io non piango mai.
Non conosco il pianto, la malinconia, la follia, la creatività, la noia, la rabbia.
Io, Nasim, da novantanove anni conosco solo l’indifferenza.
Prima non era così, tutto era reale, c’è stato persino un periodo in cui non esistevano i sacchetti di plastica trasparente e gli elastici verdi e io potevo fare tutto il giorno quel che volevo.
E’ un tempo lontano.
C’erano anche gli odori e io sapevo riconoscere il profumo dei fiori e delle spezie.
Adesso conosco a memoria il nome delle sfumature. Tra il verde e il blu ce ne sono centotrentadue, le so riconoscere tutte al primo sguardo.
Le sfumature le chiamo per nome.
Non ho mai conosciuto nessuno. Quando mi hanno messa nel sacchetto ero troppo piccola e non mi hanno mai fatta uscire per paura che non ritornassi.
Temono che possa perdere la memoria e la strada.
Hanno paura che qualcuno mi faccia del male.
Lo fanno per me.
Qualche volta penso a come sarà quando non sarò più una bambina.
Passeranno ancora tanti anni prima di invecchiare, ma io so che ricorderò tutto, ogni giorno in questo sacchetto ha un ricordo che conservo nel cuore.
Ogni giorno appena mi sveglio ripeto la mia storia, ogni singola parola, sempre la stessa, una frase dopo l’altra, così da poter raccontare tutto alla prima persona che conoscerò.
Voglio che sappia tutto, che impari a memoria i toni delle mie sfumature e le riconosca al primo sguardo.
Un ricordo per ogni giorno, novantanove anni che ripeto solo per poterli raccontare a qualcuno, perché sappia chi sono.
Potrà volermi bene solo per questo?
Gli farò vedere le mie piccole mani e lo guarderò negli occhi.
Non ci saranno più sacchetti, solo parole e colori, sorrisi e profumi che saprò riconoscere.

E’ già l’alba, la candela si è spenta. Mi giro piano dall’altra parte, sbadiglio.
E’ ora di ricominciare.
Mi chiamo Nasim e vivo in questo sacchetto da novantanove anni.
Novantanove anni passati a guardare il mondo attraverso la plastica lucida e lievemente spiegazzata,
cercando di muovermi appena se non quando proprio non posso farne a meno.
Una gamba che formicola e sembra di non voler tornare a svolgere il suo compito di gamba mi obbliga a voltarmi dall’altra parte, il respiro si fa più intenso e allora tutto si appanna e non vedo più niente.
Spesso ho la fortuna di finire accanto a qualcosa, specie quando mi appoggiano su un tavolo.
Adesso, vicino a me c’è una candela accesa.

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