14:56

Mi chiedo perchè siamo venuti qui (Fluide illusioni)

E’ solo un’illusione.
Sono così sola in fondo a me stessa che laggiù non c’è proprio nessuno, non riesco a portare con me neanche un libro, l’unica realtà è un pavimento bianco e lucido, così freddo che riesco a sedermi appena.
Tutti hanno il potere di gettare quaggiù una pietra preziosa ogni tanto, senza troppa attenzione, un piccolo gesto che arriva come fosse un laccio rosso, un istante appena in cui qualcuno si siede sulla panchina con me e rimane lì, o mi lancia uno sguardo prima che le porte del treno si chiudano e quasi mi sembra che sia riuscito a passare le barriere, che abbia colto qualcosa, la mia malattia fluida, chissà forse ne soffre anche lui.
Allora mi illudo.
Mi illudo che si possa essere vicini, che la solitudine si possa annullare accanto a qualcuno. Che esistano secondi in cui non importa se un amico o uno sconosciuto, riesca a spingersi così dentro di me che io stessa sono costretta a fuggire via, perché non so contenere la commozione di quell’attimo in cui vicino alla mia ombra, sul pavimento lucido e freddo ha avuto il coraggio di sedersi qualcuno.
No, mi illudo ancora.
Ogni volta mi illudo che ci sia stata quella vicinanza, che sia esistita davvero, ma sono io che voglio leggere tutto questo in attimi a cui nessuno da importanza, neanche chi li vive con me.
La mia solitudine gli altri la fiutano, la respirano e ne fuggono via.
Allora resto seduta qui, che importa se è illusione, raccolgo quello che arriva fin quaggiù.
In fondo c’è un bel silenzio, se chiudo gli occhi riesco persino a dimenticare.

23:33

Capitolo secondo

La vita è fatta di capitoli, come il migliore o il peggiore dei libri.
Sono già qui a tirare le somme, quasi avessi anni e anni alle spalle e potessi permettermelo.
Invece è a malapena passato il primo capitolo, che è quello introduttivo, in cui appaiono i primi personaggi che già chiedono al lettore di affezionarsi un po’, di entrare nelle loro vite lasciando in sospeso la propria. Mi resta molto, dopo queste prime pagine, tante immagini e parole, oggetti che come ricordi orgogliosi della propria fisicità si mostrano senza ritegno in ogni momento e pretendono attenzione e memoria.
Ho appena girato l’ultima pagina, leggo già l’intestazione del capitolo secondo, quando mi assale la paura di non poter trattenere tutto quello che è successo, perderò certamente qualcosa, particolari importanti della storia che non potrò recuperare mai più, perché ogni pagina può essere letta solo una volta.
Sono ancora così vicina, quanto di me è in quelle righe? Troppo.
Il titolo del nuovo capitolo mi chiama, ha il nome di una lontana città, profuma d’oriente e io ne sono affascinata, incuriosita, attratta.
Forse dovrei leggerlo tutto d’un fiato, senza darmi il tempo di pensare alle pagine ormai passate, così da non lasciar tornare la…cos’è poi? Malinconia? Nostalgia?
La voce lieve della felicità appena passata.
Anche adesso c’è felicità, ma è diversa. Ogni sentimento è diverso in ogni capitolo, solo il nome è lo stesso e ci concediamo di darlo per non scardinare troppo il racconto, ma forse è un errore anche questo, le sfumature sono appiattite e nessuno saprà più distinguerle.
I personaggi prendono strade diverse, alcuni cambiano paese e provano a seguire i sogni che avevano, altri si affacciano adesso alla storia, pieni di novità e presunzione che per qualche attimo lasciano spazio al dubbio di non aver letto poi lentamente, come meritava, quel primo capitolo così denso e importante.
Ma è solo la normalità della lettura a renderli presuntuosi, è necessaria qualche nuova pagina di assestamento per riportare la quotidianità e non ci sarà più irritazione per il posto che hanno preso.
Un libro va letto con calma, mi ripeto.
Ma non riesco a ricordarlo, e quando leggo mi lascio rapire, corro sui sentieri ripidi, mi affanno dietro al pazzo svolgersi di una serata, poi resto immobile per tre pagine come se mi sentissi incapace di reagire, piango nella quarta per la partenza di qualcuno e mi innamoro nella quinta del personaggio appena arrivato.
Forse sbaglio.
Forse dovrei dare ad ogni frase la stessa calma e la stessa attenzione.
Dovrei? Oppure è giusto che io viva come sento, senza farmi domande sui metodi di lettura, in modo incontrollato e passionale.
Forse finirà anche la passione. O forse non finirà mai, e ci saranno sempre nuovi capitoli che tratterranno molto di me, dai quali uscirò sempre più definita, protagonista che cresce con la storia e dalla storia si lascia cambiare.
Coraggio, apri bene quelle pagine Erika, non temere per quello che hai perso, le parole di un libro restano comunque dentro, da qualche parte.
Ora è tempo di continuare la storia.
Buona lettura.

15:49

Fondersi

Che succede?
Lento movimento cadenzato, questo sabato mattina. Da qualche giorno il tempo mi sfugge, sembra troppo ed è poco, oppure non sembra affatto, scompare, si annulla persino il ticchettio sommesso dell’orologio di plastica gialla da muro – appoggiato da qualche parte – mentre intorno tutto viaggia a velocità supersonica e si trasforma senza che io riesca a condensarlo in pensieri, massi solidi.
Succede. Lascio fondere i miei metalli in una nuova, vuota fonderia abbandonata, mangio una mela dimenticata a casa mia, torno a scrivere senza freni, piango.
Succede che adesso posso veramente scrivere, sbattere sul foglio la consapevolezza che tengo stretta tra le mani da qualche settimana, lasciare che si rialzi per il solo piacere di guardarla negli occhi.
Prova a guardarmi con cattiveria.
Adesso. Provaci adesso.
Faccio fatica a costringermi in questa stanza, quando tutto quello che vorrei è fare scatoloni di ogni parola ormai morta e gettarli via da un ponte qualsiasi di Roma.
Scatoloni, si. Riempirli fino a scoppiare e chiudere tutto ermeticamente, che non possa fuggire neanche un grido leggero, una parola urlata con odio.
Va bene, non c’è solo inutilità in quello che è stato. Va bene, conserverò pur qualcosa – un foglio senza data o un articolo strappato da una rivista – e col dovuto tempo riuscirò anche a ritornare su quel ponte, uno sguardo appena accennato allo scorrere del fiume e via, potrò dirmi soddisfatta.
Succede: sto tentando di mettere in chiaro a me stessa che le decisioni vanno prese e non rincorse, e magari anche aggredite con forza, tirate per le braccia perché diamine, è normale che vogliano correre via.
E allora? Che, forse, sarebbe migliore vivere sempre nello stesso foglio? Avere a disposizione le stesse parole, sempre le stesse, sicuri di averle, certo, ma incapaci di scrivere con tutte le altre.
No. Arriveremo insieme a non parlare più, tutto continuerà a passare dagli occhi in un fiume diretto e vibrante, lo faremo per ore, per un giorno intero, finché non sarà inutile anche quello perché tutto tra noi sarà stato detto, tutto, e solo le mani potranno allora parlare.
E poi chissà, forse anche quello finirà, e passeremo ad altro, fino a fonderci come quei metalli in una nuova lega. Una parola nuova.
Una parola che non aveva mai visto la luce.
In quel momento non avrò più memoria, tutto sarà ricreato e l’unico spazio che saprò riempire saranno i tuoi occhi.

23:02

La storia di Nasim

Mi chiamo Nasim e vivo in questo sacchetto da novantanove anni.
Novantanove anni passati a guardare il mondo attraverso la plastica lucida e lievemente spiegazzata,
cercando di muovermi appena se non quando proprio non posso farne a meno.
Una gamba che formicola e sembra di non voler tornare a svolgere il suo compito di gamba mi obbliga a voltarmi dall’altra parte, il respiro si fa più intenso e allora tutto si appanna e non vedo più niente.
Spesso ho la fortuna di finire accanto a qualcosa, specie quando mi appoggiano su un tavolo.

Adesso, vicino a me c’è una candela accesa. La fiamma serpeggia come una lamed infuocata e la cera risplende sotto il suo tocco. Resto incantata a guardarla e ogni pensiero scompare.
La muove certamente qualcosa, sembra danzare ma vedo nei suoi spasmi un ritmo nascosto, non mi batte forse il cuore secondo un ordine preciso di pause e suoni?
Una volta ho cercato di uscire.
Ho scalato le pareti del sacchetto finchè non ho visto l’elastico verde, stretto come un laccio nero alla caviglia di un prigioniero.
Mi sono spinta proprio sotto, ho cercato di infilare una mano tra le pieghe della plastica ma non c’era neanche una fessurina, nulla che potesse permettermi di scavare o allargare o rompere o anche solo di aggrapparmi e sfiorare l’aria esterna.
Avrei potuto impiccarmi.
Ho preso la cinta del mio vestito bianco e l’ho girata più volte attorno alla mano, stretta come quell’elastico verde, l’ho immaginata sul mio collo.
Per un attimo appena un brivido mi ha sfiorato la schiena.
Impiccarmi era forse l’unico modo per uscire.
Ma non l’ho fatto.
La candela era accesa, come una donna sconosciuta che passa e sorride senza motivo.
Mi è sembrato un motivo valido per non ammazzarsi.
Una follia momentanea, o forse l’unico attimo di lucidità della mia vita.
Adesso sono seduta sul fondo, guardo l’elastico in alto, sbadiglio.
So che non uscirò mai, ma arriverà il momento in cui qualcuno mi sposterà ancora sul tavolo,
o magari su una mensola alta per evitare che mi prendano i bambini.
Quando prenderanno il sacchetto inizierò a dibattermi con tutte le forze, urlerò, piangerò, griderò.
Tutti i rumori possibili.
La persona alzerà il sacchetto all’altezza dei suoi occhi e lo avvicinerà al volto.
Proprio allora smetterò di gridare, schiaccerò le mie mani alla plastica per fargli vedere quanto sono piccole.
Guarderò con i miei occhietti quegli enormi occhi e chiederò di lasciarmi andare.
Ho paura di quelle mani che mi hanno protetta e che sole possono darmi la libertà, ma degli occhi no, si può sempre guardare dritto negli occhi, è l’unica violenza che conosco.
Io non piango mai.
Non conosco il pianto, la malinconia, la follia, la creatività, la noia, la rabbia.
Io, Nasim, da novantanove anni conosco solo l’indifferenza.
Prima non era così, tutto era reale, c’è stato persino un periodo in cui non esistevano i sacchetti di plastica trasparente e gli elastici verdi e io potevo fare tutto il giorno quel che volevo.
E’ un tempo lontano.
C’erano anche gli odori e io sapevo riconoscere il profumo dei fiori e delle spezie.
Adesso conosco a memoria il nome delle sfumature. Tra il verde e il blu ce ne sono centotrentadue, le so riconoscere tutte al primo sguardo.
Le sfumature le chiamo per nome.
Non ho mai conosciuto nessuno. Quando mi hanno messa nel sacchetto ero troppo piccola e non mi hanno mai fatta uscire per paura che non ritornassi.
Temono che possa perdere la memoria e la strada.
Hanno paura che qualcuno mi faccia del male.
Lo fanno per me.
Qualche volta penso a come sarà quando non sarò più una bambina.
Passeranno ancora tanti anni prima di invecchiare, ma io so che ricorderò tutto, ogni giorno in questo sacchetto ha un ricordo che conservo nel cuore.
Ogni giorno appena mi sveglio ripeto la mia storia, ogni singola parola, sempre la stessa, una frase dopo l’altra, così da poter raccontare tutto alla prima persona che conoscerò.
Voglio che sappia tutto, che impari a memoria i toni delle mie sfumature e le riconosca al primo sguardo.
Un ricordo per ogni giorno, novantanove anni che ripeto solo per poterli raccontare a qualcuno, perché sappia chi sono.
Potrà volermi bene solo per questo?
Gli farò vedere le mie piccole mani e lo guarderò negli occhi.
Non ci saranno più sacchetti, solo parole e colori, sorrisi e profumi che saprò riconoscere.

E’ già l’alba, la candela si è spenta. Mi giro piano dall’altra parte, sbadiglio.
E’ ora di ricominciare.
Mi chiamo Nasim e vivo in questo sacchetto da novantanove anni.
Novantanove anni passati a guardare il mondo attraverso la plastica lucida e lievemente spiegazzata,
cercando di muovermi appena se non quando proprio non posso farne a meno.
Una gamba che formicola e sembra di non voler tornare a svolgere il suo compito di gamba mi obbliga a voltarmi dall’altra parte, il respiro si fa più intenso e allora tutto si appanna e non vedo più niente.
Spesso ho la fortuna di finire accanto a qualcosa, specie quando mi appoggiano su un tavolo.
Adesso, vicino a me c’è una candela accesa.

23:07

"Benvenuto, uomo infedele! T'ha percosso il mondo col suo anatema? E poiché in nessun luogo hai trovato pietà, tu cerchi l'amore tra le mie braccia? " (Tannhäuser, R. Wagner)


Vivere. Vivere e basta.
Qual è la logica della vita? Ogni giorno mille stupide regole cambiano il mio muovere nel mondo.
Ma se potessi realmente liberarmi di tutto, delle seducenti bende della società, cosa farei di me stessa e della mia volontà?
Se questo accadesse, se non rimanessi ore raggomitolata nel letto a ripetermi che ho sbagliato, farei esattamente come la mia pesciolina rossa: mangerei tutte le mie creature appena nate, una per una.
Non è cannibalismo.
No.
E’ autodistruzione? Nemmeno.
Domattina uscirò di casa presto, prenderò il treno delle 7.00 per Roma Termini e resterò impigliata nella rete umana che mi impedirà di pensare.
Sarò costretta ad ascoltare la vita che salirà con me su quel treno.
Avrò solo la durata di un viaggio a disposizione per entrare nella vita di quelle persone.
Coglierò una telefonata, una discussione fra donne, risate mattutine o la preparazione per una verifica scolastica.
Mangerò tutto, ingoierò tutto.
Terrò tutto dentro, lo lascerò depositare, e quando tornerò a casa sarà rimasto solo qualche elemento, forse il tono col quale un uomo ha salutato il suo interlocutore telefonico, forse uno sbadiglio.
Ma Erika dov’è?
E’ in quel vagone, è in piedi tra quelle persone, è davanti al computer, si illude di vivere.
Ma vive?
E’ vita reale questa?
O la vita reale non è forse il lasciarsi guidare dalla forza che muove tutto, le mie mani in questo momento come l’istinto animale di cannibalismo dei miei pesci innocenti e colpevoli.
Dovrei sentirmi in colpa, per non essere capace di gestire il periodo che sto vivendo?
Questo caos, è necessariamente negativo?
Voglio inebriarmi di questo caos, annullarmi in questo caos, distruggerlo dall’interno.
Sento la voce della vertigine che mi chiama, non voglio fuggire.
E tu.
Potrei chiedermi tante cose, come faccio sempre.
Ma scelgo di non restare in quel vagone: scendo, fuori mi aspettano mille storie da raccogliere e ascoltare.
Potrei illudermi, come faccio sempre.
Ma sento che qualcosa è cambiato. E’ il tempo dell’impeto e della tempesta.
Sturm und drang.
Suona per me una marcia da taverna, ragazzo.
Adesso so che posso costruire e distruggere, scegliere e anche scegliere di non volere nulla.
Questo è vivere?
Suona per me, ragazzo.

“Dolce è la luce
e agli occhi piace vedere il sole.

Anche se vive l'uomo per molti anni
se li goda tutti,
e pensi ai giorni tenebrosi, che saranno molti:
tutto ciò che accade è vanità.”

(Qoelet)

17:12

Atto III: "Qoelet" o anche "Le caramelle sono finite"

Il sipario si chiude, abbiamo finito le caramelle, il tempo, le parole.
Te ne vai silenziosa, ti abbiamo messo una giacca ma sembri una contadina vestita a festa.
Si, la conosco la storia del tempo, ogni cosa ha il suo, che esista o no è così. Infatti non piango, ti ho vista andare via ed è stato come ascoltare una canzone che finisce, le ultime note si fanno sempre più lente, poi resta solo il vuoto.
Anche io vorrei morire così, come un notturno al piano che finisce, in modo così naturale che le lacrime arriveranno solo tra qualche giorno, (lo so).
Grazie per le caramelle e per avermi insegnato a raccontare.
Io scrivo perchè tu leggevi.
Io scrivo perchè tu amavi ricordare tutto.
Ed eccomi quà, tua creatura, palsmata dalla tua voce che in dialetto raccontava della guerra.
Non sono cresciuta con le favole io, tu parlavi di tedeschi e partigiani, io pensavo a Ulisse e lo immaginavo come Parri.
Tu che sapevi fare l'imitazione di mussolini (le maiuscole, nel mio Shtetl, le distribuisco consapevolmente) nel modo più divertente che io abbia mai visto, altro che Guzzanti...
"Che i fascisti, quelli, brutta razza. Tutti dovevano fare la fine di quello là, il pezzo grosso. A testa in giù, come hanno fatto con noi per vent'anni".
Grazie per avermi insegnato da che parte stare, come riconoscere le ingiustizie, come farsi sentire quando è il momento, ma sempre con grazia, siamo donne, "ricordatelo sempre anche se lavori nella merda".
Io ricordo, nonna.
Tu che nelle vecchie fotografie sei in piedi vicino alle tue amiche sedute, per non rovinare le pieghe della gonna che ti eri cucita da sola con la stoffa dei vestiti smessi della "padrona", copiando i modelli nelle vetrine e tenendo sempre un libro in mano.
Vedi come la magia rimane, come è passata di donna in donna seguendo una via precisa, quella delle parole.
Siamo cantastorie, apparteniamo al passato, una dinastia di contadine dei fogli bianchi. Zappare e seminare.
Metterci l'amore, "sennò le piante mica te li fanno i frutti!".
Io resto sempre quà, la bimba che, sola, passava le ore ad ascoltarti. Che ne sanno gli altri di questa magia.
Non te ne vai del tutto, insomma.   
Non mi rimane solo la scatola bianca delle fotografie. Di ognuna posso raccontare per ore ed ore, come te.
Arrivederci no, non te lo dico. Ora lo so che sono forte come te, dovevo solo rendermene conto.
Chi ci ammazza, a noi, "abbiamo passato anche il fascismo"!
Mia bellissima nonna, mi mancherai.
Grazie per tutte le verità e per tutte le bugie.

16:58

Atto II: "Avere i minuti contati" o anche "Contare i minuti"

Secondo giorno. No, non mi è venuta la malsana idea di fare una cronaca della morte della nonna, sebbene io non abbia niente contro le cronache (è sempre meglio specificare quando si toccano parole sacre a giornalisti, militari e avvocati).
Insomma questo è più uno stringere la mano in altre forme, un gettare uno sguardo, o se vogliamo vederla da un'altra ottica un approfittarsi del momento per riempire il foglio di stronzate.
Siedo da un pò vicino al letto di nonna, che finge di dormire, diciamo così, nel senso che "sonno" è l'espressione più simile al suo aver perso i sensi.
Il silenzio mi permette di parlare senza interruzioni nè censure date dal caos,  -che spesso toglie le idee migliori (ma a volte le intensifica) - e infatti mi rendo conto della discutibilissima utilità di ciò che sto scrivendo.
Noto con piacere infantile, però, che arrivo sempre al punto in cui non so più cosa dire.
Questo momento mi diverte parecchio: mi inchiodo da sola al vuoto forzato del foglio e rido della mia arresa all'evidenza: non ho proprio niente da dire a riguardo, nulla di nulla. L'espressione rende bene "Nulla di nulla", è composta, ordinata, perfino simmetrica. Mi piace.
Ma la parte migliore viene un attimo dopo, quando qualcosa si insinua nella mia testa, e siccome è indubbiamente il momento sbagliato ha anche la pretesa di sembrare coraggioso, un qualcosa che non mi aspetto, insomma.
Che poi, non è banale anche il coraggio?
Tolto l'impeto, la passione, resta solo un gesto avventato.
Un attimo di egoismo, un aborto della mente.
Infatti nel mio foglio bianco si insinuano ricordi banali: un episodio dei tempi del liceo, una battuta comica ascoltata chissà dove, chissà quando.
Troppo pathos, nonna, troppe aspettative: la vita stessa è degna solo dei peggiori aggettivi (come i bar di Caracas).

Ipocrita
Viscida
Opportunista
Inutile
Ridicola
Falsa
Banale
Noiosa
Pittoresca
E non venitemi a dire che "pittoresca" fa sorridere...